domenica 12 febbraio 2012

Angiola



La notte è stata lunga, quanto mai.
I miei piedi nudi calpestavano ancora le foglie umide e il muschio del bosco quando la prima fitta, una scossa veloce che attraversava il mio ventre ha annunciato che il momento si avvicinava.
Non avevo paura: Angiola mi aveva spiegato cosa avrei dovuto fare se le doglie mi avessero colto all'improvviso, nel bel mezzo delle mie scorribande nel bosco.
Niente panico. Respiri lunghi e profondi e pian piano guadagnare terreno per raggiungere il posto più vicino e riparato.
Mi guardo intorno: il posto più vicino è proprio la misera casa di Angiola.
Probabilmente non ci sarà. Probabilmente sarà andata a soccorrere qualcuno che ha bisogno. Probabilmente...
Ma la casa di Angiola è quella che tutti i pellegrini agognano: l'uscio non ha chiavi che lo chiudano.
I miei passi sono stati rapidi, mio malgrado. Dietro il tronco dell'ultimo castagno del sentiero intravvedo la povera casa. 



Mi avvicino. Spingo la porta. Come immaginavo lei non c'è.
"Cammina" mi aveva detto "non ti fermare, il dolore così ti sarà più lieve".
E così giro in tondo nei pochi metri che fanno, di quell'esiguo rifugio, la casa di un essere umano.
Le scariche che percorrono il mio corpo sono sempre più vicine, "Ricordati di non forzare la natura. Quando tuo figlio avrà trovato la strada, sarà lui stesso a indicarla a te".
Così, dopo un tempo che mi è parso infinito, accoccolata davanti alla brace quasi spenta della vecchia stufa a legna, dietro la piccola testa bruna, tutto il corpicino sguscia fuori di me. Lo raccolgo tra le mani, stremata lo stringo al mio petto... mio figlio.
Ed è allora che arriva Angiola. Mi guarda. Lo guarda. Non spende parole. Taglia il cordone. Avvolge il bimbo in un telo e mentre aspetta che l'acqua per lavarlo si scaldi, prepara la vecchia napoletana.



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