lunedì 12 novembre 2012

Le scarpe (2)






Le scarpe. 

Sono sempre state un po' la mia fissa. 

E' per questo che sono qua. 


I professori del liceo sollevarono tutte le

 loro perplessità quando mia madre disse 

loro che non avrei continuato gli studi. Non 

poteva permetterselo. Dissero che era un 

delitto (proprio così) mandare sprecata 

un'intelligenza che non si incontra proprio 

tutti i giorni. Lei forse ha avuto un rigurgito 

di rimorso e mi ha detto che forse... se 

mi fossi trovata un impiego...forse. 

Non volevo sentire altro. 

Dentro di me ero al colmo dell'entusiasmo.

E' stato proprio un caso che, sollevando la 

testa, abbia visto quel cartello. 

"Cercasi commessa". 

Sono entrata senza nemmeno pensarci su. 

"Ha già avuto altre esperienze, signorina?". 

Non ho nessuna esperienza. Glielo dico, ma lui, chissà mai 

perché, decide di assumermi in prova 

e poi la prova diventa il mio lavoro. 

Iscrizione all'università. Una compagna mi 

registra le lezioni. Studio a tarda sera ed 

anche di notte. E poi lavoro. 

Sì, faccio la commessa in un negozio di scarpe. 

Non potete immaginare quante cose si imparano, 

lavorando in un negozio di scarpe.

Ragazzini. 

Tutti fissati con le Sportex. 

Tutti il modello Trainer. 

Signore impellicciate con figlie adolescenti 

che vorrebbero scarpe sportive, ma poi... 

finiscono per prendere quel decolletè 

elegantino su cui insiste la mamma.

Ma così. Una cosa così, è stata la prima 

volta che mi è accaduta.

Lui è entrato. Subito dopo l'ora di pausa 

degli uffici. Un'ora morta. E' raro che il 

negozio sia animato.

Si è seduto. Ha chiesto anche lui quell'ultimo modello. 

Gli ho portato il suo numero. 

Ne ha provata una. Ha voluto anche l'altra. 

Si è alzato in piedi, credevo per andare verso lo specchio. 

Invece no. Si è seduto su una vecchia panca contadina 

che fa da allestimento nella vetrina autunnale. 

Ha appoggiato i gomiti sulle ginocchia. E il 

viso tra le mani, con gli occhi fissi sulle 

scarpe.

Le guardava fisso. Ma non erano quelle 

scarpe che guardava. 

C'era tutta una vita nei piccoli scatti dei piedi, nel sorriso 

bambino dei suoi occhi sognanti. 

Muoveva i piedi come un cane le zampe quando sogna 

di correre.

Ha trascorso un tempo infinito così.


Mi sono avvicinata piano.
"E' questo il modello che desiderava, signore?".
Si è riscosso appena. Ha alzato su di me lo sguardo bambino, ma non era me che vedeva.
Mi ha teso la mano. "Mi chiamo Bernardo" ha detto.


sabato 10 novembre 2012

Le scarpe


Le scarpe: ultimo modello, le più richieste. 

Solo calzarle, ti identifica. 


Le scarpe. Di che colore fossero state un tempo, era


difficile dirlo. Il nonno ci aveva cucito sotto pezzi di 

camere d'aria di un vecchio trattore in disuso. Le 

aveva preparate ben bene. L'indomani sarebbe 

stato un giorno importante.

L'indomani sarebbe stato il primo giorno di scuola.

Si alzò. Era buio. Appena si distinguevano in 

lontananza le sagome possenti dei monti.

Indossò quei buffi calzoni nè corti nè lunghi. Per 

tenerli su, una striscia di iuta. Una maglia rugosa 

ornata da grandi toppe a quadrettoni sui gomiti. E 

per finire le scarpe, in cui il nonno aveva 

provveduto a mettere degli stracci perchè stessero 

su, sui suoi piedi ancora troppo piccoli.

Si sentiva un re!

Per merenda un grossa fetta di pane ed una mela 

annurca avvolte dentro un canovaccio.

Si avviò.

Corse giù per sentieri e mulattiere. Arrivò nel 

momento in cui Giuseppe, detto z' Peppe, il vecchio 

custode, spalancava il portone della piccola scuola 

del paese.

Un cenno del capo da Giuseppe. Un composto 

"Buongiorno z' Pe' ", ed entrò.

Una decina di vecchi banchi tarlati ed una grossa 

cattedra, al centro di uno stanzone. Si guardava 

intorno. Voleva appropriarsi di tutto in un solo 

momento.

Arrivavano a spiccioli i compagni di classe, tutti 

bambini del paese, tutte facce quotidiane. 

Poi arrivò lei, la maestra. Dentro il suo viso, 

brandelli di cielo di montagna.

La guardava. Lei non abitava tra quei monti. 

Veniva dalla città. Era il suo odore a dirlo.

All'ora di merenda, i compagni sciamarono nel 

cortile. Lui afferrò il canovaccio. Si avvicinò alla 

cattedra. Lo poggiò sulla cattedra. Lo svolse. 

Afferrò la fetta di pane e la porse alla maestra.

Quei suoi pezzi di cielo si schiarirono. Lei gli prese il 

viso tra le mani e lui arrossì. Si rianimò solo per 

sussurrarle timidamente: " Mi chiamo Bernardo". 



"Era questo il modello che desiderava, signore?".

Alzò appena gli occhi, guardò la commessa che gli 

stava sorridendo e le porse la mano. "Mi chiamo 

Bernardo" disse